Cosa metteremo nelle urne dei gazebo?

Un gazebo per le primarie del Pd

I risultati delle votazioni nei circoli del Pd rilanciano la campagna elettorale per le primarie del prossimo 30 aprile. Un tema d’attualità attorno al quale si sbizzarriscono i commentatori di giornali, tv e radio (maltrattata quest’ultima, ma incisiva) e non sbagliano quando vedono quell’evento in una prospettiva drammatica. Si tratta, infatti, di uno scontro frontale (e in campo aperto) tra i resti di un renzismo in cerca di una nuova legittimazione e i resti di una sinistra (in alcuni casi di vecchia derivazione comunista) che va alla battaglia decisiva con la speranza dell’arrivo di rinforzi di varia ascendenza, non esclusi quelli che hanno aderito alla scissione. Insomma ci sono tutti gli elementi per richiamare ai gazebo una folta schiera di votanti.

Un passaggio duro dal quale potrebbe dipendere il futuro del Paese e che, evidentemente, non può risolversi solo con l’agonismo elettorale. E’ necessario immettere in questo scontro i contenuti che stanno dietro agli schieramenti, compresi tra questi le suggestioni che aleggiano in una politica italiana nella quale il dilagante nuovismo e la reciproca delegittimazione degli schieramenti, confondono e nascondono i motivi originari delle parti in gioco. Principalmente il centro e la sinistra.

Le politiche degli ultimi decenni hanno prodotto la disarticolazione delle classi sociali intermedie, riducendo queste ultime fin sulla soglia della povertà. Eppure dovremmo considerare nel giusto merito il ruolo avuto dai ceti medi e professionali nello sviluppo del Paese ed anche – cosa non irrilevante – nella lotta per la libertà e contro le dittature, e nel consolidamento della democrazia. Le crescenti difficoltà dei ceti medi tendono a ridurre la visuale al piccolo spicchio nel quale essi intravedono (o si illudono di farlo) qualche possibilità di sopravvivenza e di futuro. I segnali di questo disagio sono evidenti, ma le risposte a quello, sono confuse e molte volte d’intralcio all’intraprendenza dei cittadini e dei gruppi sociali.

Una fiscalità esorbitante e un crescente groviglio normativo rendono difficile, se non impossibile, qualsiasi intrapresa, riducendo così i giovani e i disoccupati a questuanti in cerca di un lavoro qualsiasi e non quello per il quale hanno studiato ed hanno esperienza e vocazione. Non bastano (e sono offensivi) i contratti di breve durata e sottodimensionati rispetto alle preparazione ricevuta. Quanti laureati fanno i camerieri e altri lavori una volta riservati a chi, venendo da altri ceti e luoghi, progettava di salire, attraverso dei lavori umili, su quell’ascensore sociale che è stato il vero motore della modernità?

Io ho avuto il privilegio di studiare la storia sociale dal ‘600 in poi e ho potuto così documentare il lungo percorso di avvicinamento e, quindi, il raggiungimento di nuovi status per le persone provenienti dalle plebi cittadine e dei villaggi. Tutti costoro poi hanno costituito nel tempo la spina dorsale del progresso. Artigianato, studio, professioni e l’arte sono stati gli ingredienti di questa crescita sociale di cui oggi non si riesce a scorgere più traccia.

La vera modernità, infatti, non corrisponde all’accanimento di riforme che spesso (penso a quelle della pubblica amministrazione)  durano lo spazio di un annuncio che subito le esaurisce, quanto piuttosto alla ricomposizione di quel centro sociale che è stata l’anima del vero “miracolo” italiano. Ricomporre il centro sociale non vuol dire scegliere di privilegiare una classe sulle altre, quanto invece creare circuiti virtuosi per valorizzare l’operosità e il “genio” dei nostri connazionali.

Tanti decenni fa questa scelta che coinvolgeva le diverse classi sociali, fu chiamata con parola immediatamente comprensibile “interclassismo”. Ed era e fu la politica non solo della rinascita, ma anche del consolidamento democratico del Paese. Una politica che poi si tramutò nella scelta di quel welfare state che ha alla sua base la valorizzazione della cittadinanza che inizia con il pagamento dei tributi che ritornano ai cittadini come servizi sociali diffusi e qualità della vita.

Scelte sociali che furono possibili perché nel passato le politiche dei partiti avevano riscontro con la realtà sociale. Un metodo che potrebbe costituire un bel risultato di questo confronto tanto duro, quanto inconcludente se non indirizzato a ricreare le condizioni di una ripresa del rapporto della politica con la sua base sociale. Con il programma di affidare soprattutto all’autonoma capacità di quanti nel cuore della società, hanno il coraggio di scommettere sulle loro capacità lavorative e professionali e sulla lealtà verso lo Stato e le sue leggi.

 

 

2 commenti

  1. Condivido, soprattutto i paragrafi finali, che dicono che, senza tornare indietro, dal passato c’è qualcosa da imparare. Mentre da un lato si cerca la “modernità” inseguendo parole d’ordine imposte dal pensiero unico, dall’altro volendo sostituire la propria immagine e il proprio decisionismo maggioritario alla necessaria formazione di coalizioni che riconoscano il pluralismo sociale e politico. Una dirigenza politica che non sviluppa più la partecipazione e il dialogo è destinata a continue delusioni e sconfitte.

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